Cose da sapere e valutazioni da condividere sulle adozioni internazionali in Repubblica Democratica del Congo

 

RDC: UN PAESE COMPLESSO

ENZO B opera in Repubblica Democratica del Congo dal 2005 e, a tutto il 2016, ha portato a termine 122 adozioni.

Paese complesso il Congo, con le sue specificità, ma in ultima analisi non più di molti altri dove siamo presenti o dove operano altri Enti Autorizzati.

È chiaro che in Paesi come l’RDC la prudenza non è mai troppa e anche ENZO B, come tutti gli altri Enti che vi operano, ha dovuto affrontare varie difficoltà, piccole e grandi, vigilando continuamente su tutte le procedure in corso. Pur con la consapevolezza di non essere perfetti, ENZO B è stato sempre pronto ad intervenire di fronte alle varie situazioni che si sono presentate per individuare una soluzione positiva, spesso agendo preventivamente.

DAL BLOCCO DEL 2013 FINO ALLO SCANDALO DEI BAMBINI RUBATI

Pur consci della complessità del Paese non ci saremmo però aspettati che, quando a novembre 2013 intervenne il blocco definitivo dell’uscita dei bambini che già erano stati adottati, ne sarebbe scaturita l’odissea che poi ne è venuta fuori.

Con il rientro dei primi 31 bimbi arrivati in Italia con l’aereo di Stato a maggio 2014, eravamo convinti che, dopo i doverosi controlli, le adozioni internazionali avrebbero potuto proseguire in Congo: ma così non è stato.

Il blocco dei permessi d’uscita dei bimbi adottati in RDC è perdurato fino a giugno del 2016, un’eternità per i bambini, per i genitori in attesa e per noi, che ci siamo impegnati quotidianamente al fianco delle famiglie che avevano già concluso le procedure adottive e delle altre che le avevano ancora in corso.

Quando poi il presidente Kabila ha promulgato la nuova legge sulle adozioni, tutti gli Enti italiani autorizzati per la RDC avrebbero teoricamente potuto riprendere la propria attività nel Paese, previa naturalmente l’esplicita autorizzazione della Commissione Adozioni Internazionali.

Di questo siamo stati ancora convinti fino a poche settimane fa, vale a dire prima di venire a sapere, dall’inchiesta de L’Espresso prima e direttamente dalla CAI poi, che alcuni dei bimbi rientrati in Italia fino al giugno 2016 probabilmente non sarebbero dovuti essere proposti in adozione, in quanto avevano e hanno tuttora le loro famiglie di origine alle quali sembrerebbero essere stati sottratti con l’inganno.

I fatti riferiti dalla Vicepresidente Silvia Della Monica nelle interviste e interventi rilasciati in queste settimane non lasciano spazio a molti dubbi e ben si comprende come possa essere difficile immaginare di poter riprendere le adozioni a breve, dopo che fatti così gravi sembrano essere accaduti. Certo quei fatti andranno verificati, accertati, compresi, ma riprendere le adozioni in RDC prima di un totale e ufficiale chiarimento della situazione non appare possibile né di buon senso.

Nel caso di vicende come queste, che hanno visto coinvolti decine di minori e le loro famiglie, la priorità assoluta non può che essere quella di accertare che tutte le adozioni siano state regolari e che rispondano alle nostre leggi e a quelle del Paese estero, ma soprattutto al superiore interesse dei minori.

Certamente un’adozione internazionale risponde a questi principi quando i genitori biologici in vita o coloro che esercitano la patria potestà esprimono il proprio consenso liberamente, anche quando questo sia comprensibilmente il doloroso frutto di una scelta consapevole. Ma mai e poi mai tale consenso può essere ottenuto attraverso pratiche fraudolente e abominevoli.

ENZO B SI FIDA E SI AFFIDA ALLE ISTITUZIONI

Nella trasmissione di Presa Diretta in onda su RAITRE il 20 febbraio scorso – Genitori a tutti i costi – è stata trasmessa l’intervista al Vice Primo Ministro della RDC Evariste Boshab il quale ha dichiarato:

“Abbiamo dovuto ricontrollare tutte le procedure (…) Alcuni Enti italiani volevano che noi ci confrontassimo direttamente con loro piuttosto che con lo Stato, ma per noi lo Stato è il principale protettore dell’interesse dei minori e siamo stati totalmente in sintonia con l’Italia.”

Basterebbero queste semplici affermazioni per mettere a tacere l’ignobile coro che in tre anni di blocco delle adozioni in RDC ci ha accompagnato, ripetendo il mantra di uno Stato assente, che niente veniva fatto, che i documenti erano stati persi. Difficile quindi credere alla buona fede di chi si è assunto la responsabilità di quelle posizioni e che ancora oggi, a distanza di mesi, le ripropone apparentemente incurante dell’essere stato smentito dalla realtà dei fatti.

Non spenderemo molte parole sulle accuse mosse dal Comitato dei Genitori RDC composto, lo ricordiamo, da una piccola minoranza delle 150 famiglie coinvolte nella vicenda.

Continuiamo invece a consigliare loro di ponderare molto i termini e i toni che scelgono per la loro comunicazione: né più e né meno di come sempre abbiamo consigliato a tutti nel corso della crisi del Congo.

Raccomandare prudenza e ponderazione non è un atto di minaccia, è un atto di responsabilità, oltre che un gesto di amore verso i bambini che non hanno voce e verso le tante famiglie che, in silenzio, ma non con minore sofferenza, si sono fidate e affidate alle Istituzioni avendone positivo riscontro: è a loro che andava la nostra preoccupazione quando abbiamo ritenuto che il baccano mediatico fomentato da qualcuno mettesse in pericolo il rientro in Italia dei loro figli. Abbiamo allora fatto presente in tutti i modi che questa era una modalità insensata di affrontare la situazione: e lo ribadiamo oggi. Non siamo stati i soli a farlo anche se, come ormai spesso curiosamente capita, siamo gli unici ad essere citati nelle reazioni polemiche di chi a quelle raccomandazioni ha ritenuto di non attenersi.

Se poi qualcuno considera queste raccomandazioni delle minacce si assume la responsabilità di far prevalere il proprio livore sull’interesse comune alle tante famiglie che hanno saputo assumere atteggiamenti più adulti e che sono, lo ricordiamo, la stragrande maggioranza.

Continueremo a mantenere il nostro stile di prudenza e moderazione, ma suggeriamo di non scambiare la nostra riservatezza con l’accondiscendenza: non è saggio confondere la pacatezza con la remissività.

SGOMBRIAMO IL CAMPO DAGLI EQUIVOCI

ENZO B ha immediatamente aderito, senza se e senza ma, alla richiesta di piena collaborazione sulla “vicenda Congo” formulata nel 2014 dalla Vicepresidente della Commissione Adozioni Internazionali D.ssa Silvia Della Monica.

Adesione che ha visti coinvolti la maggior parte degli Enti, non tutti.

Durante la lunga crisi del Congo abbiamo deciso di rispettare scelte e indicazioni della nostra Autorità Centrale e abbiamo condiviso con le famiglie le informazioni che ci venivano trasmesse e che avevamo l’autorizzazione a condividere, perché questo è ciò che si fa in tutte le trattative a livello internazionale: riservatezza e rispetto dei ruoli istituzionali. Sono il minimo richiesto per la riuscita di qualsiasi azione diplomatica.

In questi anni tutte le notizie non veicolate ufficialmente dalla Commissione Adozioni Internazionali si sono sempre rivelate delle solenni panzane come, ad esempio, i roboanti annunci diffusi dall’Ente AiBi e dal Coordinamento Care nel maggio del 2015 sulla fine del blocco delle adozioni, rivelatesi notizie prive di qualsiasi fondamento.

Vogliamo anche ricordare che tutti i bimbi arrivati in Italia attraverso una procedura speciale, resasi necessaria per la delicatezza dell’intera situazione venutasi a creare in RDC e in Italia, sono stati accolti in modo amorevole e attento dai funzionari della Commissione e dalle Forze dell’Ordine, che sono stati capaci di rendere il più accogliente possibile il loro arrivo e quello dei loro accompagnatori.

Tutti i bambini hanno un ricordo positivo di quel momento che ha rappresentato l’incontro con i loro genitori dopo anni di attesa.

IL RUOLO E LA RESPONSABILITÀ DEGLI ENTI AUTORIZZATI

Un dibattito molto strumentale agli interessi di qualcuno si sta poi sviluppando in questi giorni in merito alla responsabilità degli Enti Autorizzati riguardo la verifica dell’effettivo stato di adottabilità dei bambini, in particolare in Congo.

Sostenere che tale responsabilità si riduca all’acquisizione burocratica di documenti formalmente conformi provenienti dalle Autorità locali costituisce una strumentale presa di distanza dal profilo etico che deve sempre orientare le scelte dell’Ente.

E questo a maggior ragione in Paesi nei quali è nota la concreta possibilità di favorire pratiche corruttive e illegali.

Quindi, per non incorrere in equivoci, ribadiamo che proporre ad una famiglia italiana l’abbinamento di un bambino nella RDC non può mai ridursi alla sola trasmissione di pezzi di carta, ma deve essere accompagnata dalla messa in campo da parte dell’Ente stesso di tutti gli strumenti che ragionevolmente possano accertare e garantire che l’adottabilità di quel minore corrisponda alla verità.

Chi sostiene il contrario mente e lo fa con piena consapevolezza o, nella migliore delle ipotesi, auto denunciando la propria incapacità di svolgere il delicato compito affidato agli Enti Autorizzati.

Se la famiglia biologica, anche il giorno prima dell’arrivo nel Paese dei genitori adottivi, decidesse di voler ritirare il consenso già rilasciato a far adottare il proprio figlio, altro non farebbe che esercitare un sacrosanto diritto tutelato dalla legge e dal buon senso naturale: chi opera contro questo principio è un criminale. Punto.

Le rare volte in cui, come Ente Autorizzato, ci siamo opposti alla famiglia biologica è stato quando abbiamo responsabilmente ritenuto che questa fosse palesemente contraria all’interesse del minore ed è stato fatto perseguendo canali ufficiali, istituzionali e verificabili. Nulla di ciò è mai però accaduto in Congo dove abbiamo rispettato le scelte delle famiglie biologiche laddove si sono manifestate, perché il diritto di un bimbo è quello di crescere in una famiglia e se la sua famiglia di origine, magari dopo una fase di crisi, se ne prende nuovamente cura, è un suo diritto poter rimanere laddove è nato!

Non abbiamo mai condiviso o assecondato, quindi, le idee balzane e le proposte irricevibili avanzate da alcune famiglie convinte che esistessero “vie brevi” per far arrivare in Italia i loro figli. Le abbiamo sempre considerate il frutto del dolore e della fatica dell’attesa e abbiamo sempre rispettato le nostre famiglie e la loro comprensibile sofferenza. Tutte: anche quelle che più si sono impegnate a mettere a dura prova la nostra resistenza e pazienza.

In questo senso vogliamo quindi rispondere a chiunque abbia iniziato a diffondere il seguente ragionamento: è opportuno operare in Paesi con alto tasso di corruzione? Non sarebbe meglio chiudere le adozioni e ammettere che non è possibile in quei Paesi operare nella legalità?

Non siamo d’accordo: è un ragionamento che sembra costruito ad hoc per giustificare chi ha operato senza scrupoli, offrendogli una scusante “ambientale”.

Non ci stiamo perché anche nelle situazioni più complesse le Organizzazioni, ma soprattutto le persone che ne fanno parte, se sono integre possono restare tali, magari con un di più di sofferenza e fatica, perché l’onestà non è un riflesso condizionato, quanto una scelta personale e consapevole, una quotidiana pratica di comportamenti giusti, dove non si aspira alla perfezione, ma dove si fa quello che si può al meglio che si può!

Ammettere che laddove c’è corruzione non bisogna lavorare vorrebbe dire rinunciare da adulti alla propria responsabilità a perseguire la speranza di un futuro migliore per tantissimi bambini che della corruzione non sono certo causa, ma al più vittime e oggetto di scambio.

Per questi motivi, lo ribadiamo, abbiamo scelto di stare al fianco delle Istituzioni e degli Enti che come noi lo hanno scelto, affinché le adozioni internazionali possano tornare ad essere uno strumento di protezione dei bambini.

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